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Operazione Ruina, condannato a 20 anni il presunto capomafia Nicolò Pidone - Palermo Oggi

Calatafimi Segesta | Cronaca

Operazione Ruina, condannato a 20 anni il presunto capomafia Nicolò Pidone

22 Aprile 2022 14:44, di Laura Spanò
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Davanti al Gup ha retto la ricostruzione della Dda di Palermo e degli investigatori della Mobile

Pena pesante quella inflitta dal Gup di Palermo Paolo Magro nei confronti del presunto capomafia di Calatafimi Nicolò Pidone. Ha avuto comminati 20 anni in continuazione con una precedente condanna. Il nome di Pidone compare in altri processi per mafia.

Quando nel dicembre 2020 fu arrestato, nell'ambito dell'operazione Ruina, portata a termine dagli investigatori della Squadra Mobile di Trapani coordinati dalla DDA di Palermo, Pidone era uno dei tanti scarcerati tornati in prima linea. Coinvolto in un blitz nel 2012 era stato scarcerato per fine pena nel 2017.

In udienza ha retto la ricostruzione della Dda di Palermo, secondo cui Nicolò Pidone era il capo della "famiglia" di Calatafimi-Segesta, che ricade nel mandamento di Alcamo.

Le altre pene sono state: 13 anni a Tommaso Rosario Leo, a Gaetano Piacenza 8 anni e 8 mesi, a Domenico Simone 3 anni, Ludovico Chiapponello 2 anni e 6 mesi. Assolti Andrea Ingraldo e Vincenzo Ruggirello.

Anche Rosario Tommaso Leo era già stato condannato per mafia. Faceva riferimento ai boss vicini a Vito Gondola e a Sergio Giglio, uomini della cosiddetta rete di pizzinari del boss latitante Matteo Messina Denaro e della rete di protezione della latitanza dell’ergastolano Vito Marino, arrestato poi dalla Squadra Mobile nel 2018.

Nello stesso blitz dello Sco, delle squadre mobili di Trapani e Palermo furono coinvolti altri insospettabili, tra cui Salvatore Barone, ex presidente dell’azienda del trasporto pubblico di Trapani e della cantina vitivinicola Kaggera. Barone fu scarcerato due settimane dopo l’arresto, dopo l’interrogatorio di garanzia. Pidone avrebbe preteso da Barone assunzioni e agevolazioni all’interno della cantina sociale Kaggera.

Pidone, attraverso il suo uomo di fiducia, Gaetano Placenza, di professione allevatore, avrebbe ottenuto assunzioni per sostenere economicamente le famiglie dei detenuti mafiosi, ma anche soldi per aiutare gli esponenti di Cosa Nostra, aggirando le norme statutarie della cantina.

L’inchiesta, coordinata dal procuratore aggiunto Paolo Guido e dai sostituti Francesca Dessì e Pierangelo Padova, fece emergere pesanti ombre sulla campagna elettorale del sindaco Antonino Accardo a cui notificato un avviso di garanzia, e si dimise.

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